Arthur Rimbaud, il poeta maledetto (definizione coniata
per primo da Paul Verlaine) è assurto a precursore e mito di tutte le
ribellioni e trasgressioni, cantate con toni accesi e conturbanti nella precoce
stagione della sua prodigiosa produzione poetica, consumatasi in un breve giro
di anni, dai sedici ai diciannove anni d’età. Dopodiché, improvvisamente,
decide di abbandonare la poesia e, dopo un periodo di vagabondaggi in vari
paesi d’Europa, si trasferisce in Abissinia per dedicarsi alla professione del
mercante.
Questo romanzo, in cui la voce narrante è
affidata alla figura di un italiano (immaginaria, ma concepita sul modello
degli italiani che operavano nelle regioni dell’Africa orientale negli stessi
anni in cui vi permase il poeta francese), si propone di restituire il Rimbaud
fuori dal mito, cercando di capire le ragioni del suo rifiuto della figura
del poeta maledetto e della sua stessa creazione poetica. È un
rifiuto netto e senza ripensamenti, come risulterà dalla narrazione, che si
avvale, principalmente, delle testimonianze e delle lettere scritte dallo
stesso Rimbaud e da altre persone che lo conobbero. Da quella esperienza, tuttavia, che egli stesso
definirà, nell’opera sua di commiato dall’Europa e dalla sua vita di
allora, Une saison en enfer, il poeta, dietro la maschera sardonica
e caparbia ostentata con tutti, risulterà segnato per sempre, restando un’anima
in pena perennemente in cerca di se stessa, ovvero di un altro da sé da
realizzare sotto un nuovo cielo e un’inedita realtà che esisteva solo nella sua
immaginazione. Se vogliamo, si può considerare anche il prototipo di quel
malessere esistenziale e di quella fuga da se stessi che contraddistinguerà
tanta gioventù del nostro tempo.